Approfittiamo dell'uscita di questo libro su Carlo Monni per ricordarlo ancora con affetto, non senza sottolineare quanto ci pesa la sua assenza.
Un sabato prenatalizio, ma la libreria Clichy è affollata come non mai per assistere alla presentazione dell'ultimo numero della collana Sorbonne; e non crediamo che il pubblico abbia scelto di dedicare un paio d'ore alla cultura solo perché nella libreria si presentava anche il Dizionario della canzone di Dario Salvatori (su cui interveniamo a parte).
Balenando in burrasca è il verso finale di Gabbiani, una bellissima lirica di Vincenzo Cardarelli, il poeta più amato da Carlo Monni, che non mancava mai nei suoi incontri col pubblico di rendergli omaggio, sempre lamentandosi del fatto che Ungaretti era più famoso (ma le sue letture dei sonetti di Shakespeare erano traduzioni del poeta lucchese).
L'autore del breve saggio Pilade Cantini e Anna Meacci ci hanno intrattenuto piacevolmente per quasi due ore raccontandoci i loro incontri con Carlo, gli spettacoli fatti insieme, le cene che sempre ne accompagnavano la preparazione oppure il proseguimento delle serate trascorse nei teatri o su altre scene occasionali dove gli attori si esibivano.
Unanimi, Anna e Pilade, sottolineano che non c'era cesura fra lo spettacolo e il prosieguo, Monni anche fuori dalla scena era il Monni, con lo stesso linguaggio, la stessa passione nel raccontare o raccontarsi, lo stesso dialogare con gli amici intorno al palco o meglio ancora seduti alla tavola apparecchiata.
Carlo non ci ha lasciato quasi nulla di scritto, la sua era una cultura immersa in quella oralità atavica, ereditata dal suo rapporto con la gente e con l'ambiente contadino che lo aveva formato e poi scaraventato nella città, di cui era diventato l'ossimoro portandone sulle spalle tutto il disagio esistenziale. Ma il suo rapporto con chi lo ascoltava, non solo durante lo spettacolo, era fisicamente coinvolgente, vivo; il vero esempio di quanto aveva detto Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa, sia pure parlando di poesia: "la gente del popolo accetta la poesia se le arriva come poesia vivente..." ). Col poeta friulano aveva in comune anche una vitalità, un po' meno "disperata", che lo aveva abbandonato solo nelle ultime settimane precedenti la sua scomparsa.
Ci rimane, il caro ricordo della sua purezza e della sua bontà, e Pilade nel suo libro sottolinea più volte che mai gli aveva sentito parlar male degli amici e colleghi di lavoro, e lo possono confermare tutti quelli che lo hanno conosciuto, pur essendo la scena uno spazio ambito da occupare con forza, senza guardare in faccia nessuno ("ci si sbranerebbe pur di mantenere la nostra presenza sul palco", ci aveva detto una volta durante l'esibizione in un concerto cui erano presenti altri artisti). E anche sul cognome dell'unico personaggio che Monni detestava, Pilade ha voluto mantenere il silenzio inserendo "i tre ipocriti asterischi".
L'ultima immagine che l'amico Pilade vuol consegnarci riguarda l'estremo saluto di Don Andrea Bigalli : "Carlo era certamente anticlericale, ma io sono qui solo per la sua tenerezza. Perché Carlo Monni era un uomo buono".
E come non avvicinare, ancora con assoluta umiltà, il saluto di Don Andrea al Pasolini dei Dialoghi (1961): "Io, per me sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono mio patrimonio, nel contenuto e nello stile".
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Ho scoperto tardi il legame esistente fra le letture della scuola elementare degli anni quaranta e la narrativa popolare della tradizione lucchese, ma quei racconti della prima infanzia che imparavo quasi a memoria esaurendo in pochi giorni il troppo piccolo libro di lettura, restano indelebili e ancora li ricordo con nostalgia riadattandoli agli attenti nipotini, sempre affamati di fiabe.
Crescendo ancora un approccio fondamentale, l'avvicinamento alla poesia e l'incontro con i grandi e piccoli protagonisti della letteratura novecentesca, primo fra tutti Giovanni Pascoli, ancora un tuffo nella campagna lucchese: il cantuccio della sua casa di Castelvecchio, la bianca strada che conduceva al cimitero ... il grande poeta occupa uno spazio molto ampio nella nostra formazione culturale, è stato il primo ad allargare i nostri orizzonti geografici, dalla sua Romagna, alle Marche, fino alla Garfagnana, sua ultima dimora nella ricerca dell'antico nido distrutto.
L'incontro fisico con la lucchesia è legato proprio al Pascoli, in occasione della nostra prima gita scolastica, quando salimmo a Castelvecchio percorrendo a piedi il breve tratto di strada che conduceva alla sua casetta, attraverso una campagna dominata dai ciliegi carichi di frutti quasi maturi. Ci accompagnò nella visita la vecchia sorella ancora immersa nell'atmosfera dei celebri canti che avevamo appena incominciato a conoscere: restano un po' offuscate le immagini della scrivania, della cucina, ma ancora viva quella del "cantuccio", da cui il poeta guardava il giardino fiorito godendo delle ultime luci della sera.
Per queste esperienze primordiali ho amato tanto il poeta delle Myricae; le tradizioni popolari sono arrivate molto dopo, perché avevano trovato il terreno fertile e i maestri che lo avevano lavorato prima di noi: Giannini, Nieri e infine Venturelli, l'amico e compagno di studi che troppo presto ci ha lasciato.
Mi accorgo di essermi troppo allontanato dal tema sfogliando il libro appena ricevuto da Giampiero, l'autore di questa ultima ricerca sul folklore lucchese che mi perdonerà certi voli della fantasia.
Ma la prima pagina che sfoglio del suo libro mi riporta ancora ai miei antichi ricordi di scuola, con quell'impostazione calendariale che caratterizzava i libri di lettura della classi elementari rigorosamente impostati sul ciclo dei mesi e delle stagioni. E come dimenticare quella celebre poesia di cui ancora conservo la memoria, Giampiero mi provoca usandola come indice e vado a ripescare su uno degli scaffali più in alto quel mio libro di lettura, fra i pochi che sono sopravvissuti e come una reliquia conservo dopo quasi settanta anni di vicissitudini e sette traslochi.
Si tratta di un testo di quarta elementare curato per le Edizioni Vallecchi da Piero Bargellini, Bellariva; sfoglio le pagine consumate e a pagina 5 ritrovo quella poesia di Angiolo Silvio Novaro intitolata I mesi dell'anno:
Gennaio mette ai monti la parrucca,
Febbraio grandi e piccoli imbacucca;
Marzo libera il sol di prigionia,
April di bei color gli orna la via;
Maggio vive tra musiche d'uccelli,
Giugno ama i frutti appesi ai ramoscelli;
Luglio falcia le messi al solleone,
Agosto, avaro, ansando, le ripone;
Settembre i dolci grappoli arrubina,
Ottobre di vendemmia empie le tina;
Novembre ammucchia aride foglie in terra,
Dicembre ammazza l'anno e lo sotterra.
Ma sarebbe troppo banale e schematico presentare tutti i mesi e lasceremo ai lettori il piacere di scoprire, o riscoprire, le vecchie usanze che, vorrei aggiungere, in Toscana si assomigliano un po' tutte, dalla Garfagnana, al Chianti alla Maremma. Ci soffermeremo solo su alcune, come la festa della Befana, quella vecchietta antica che i bambini aspettavano, preparando la sera della vigilia il fieno per il ciuchino e il fastellino di legna per farla scaldare sul canto del fuoco, dove avrebbe lasciato i doni per i bambini buoni, cioè per tutti. Era quella della Befana la grande festa per i regali, non il Natale e nemmeno tutte le altre inventate dalle interessate regole del consumismo moderno che violenta i bambini nella maniera più vergognosa.
Un'osservazione generale però vogliamo farla, in particolare sulle belle foto che illustrano il volume, quasi tutte postate da face book su cui seguiamo attentamente anche il gruppo legato alle tradizioni lucchesi (ma chi ha paura di face book?).
Ci soffermiamo solo su due fotografie fra le tante interessanti; la prima a pagina 22 (Il prete o trabiccolo) di cui vogliamo commentare la didascalia, perché non siamo a conoscenza che nella lucchesia le due voci siano sinonimi, e il dizionario garfagnino di Aldo Bertozzi, quello della Versilia di Gilberto Cocci (ed anche la mia suocera di Altopascio) ci indicano le due voci come distinte.
L'altra foto (Bambina con un gran pane fatto in casa, pagina 207) è un piccolo capolavoro degno di figurare in un museo, la piccola che stringe al seno un pane più grande di lei, con uno sguardo quasi impaurito rivolto indietro, quasi ad assicurarsi che non glielo vogliano portare via commuove veramente, un atteggiamento tanto reale quanto umano da cui traspare tutto il timore di perdere un bene così prezioso come il pane.
E su questa stupenda immagine mi fermo, ricordando una delle più belle e toccanti novelle (fiabe? leggende?) della tradizione lucchese, Il Pane appunto, che Gastone Venturelli raccolse da Gemma Frati Rigali, la nonna che gliela narrò "con grande bravura" nel 1971; ma non ve la raccontiamo, cercatela nell'ultimo libro di Gastone, La gallina della nonna Gemma.
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Sono passati cento anni da quella sciagurata guerra mondiale ma come per miracolo continuano a riemergere pagine di diari e ricordi di quei giorni trascorsi nelle trincee o peggio ancora nelle buche scavate a mani nude fra i sassi e le doline del Carso. Vogliamo ricordare ancora per chi non ne è a conoscenza, il numero delle lettere e altri messaggi che ci hanno lasciato i soldati scritti nei dialetti di tutta Europa: quattro miliardi e mezzo (4.500.000.000).
Una cifra che può confrontarsi soltanto con gli ultimi sistemi di comunicazione, dagli s.m.s. in poi, che i giovani globalizzati del terzo millennio, ben calzati e ben vestiti si scambiano quasi senza sosta.
Nelle trincee spesso mancavano anche la carta e l'inchiostro ma qualche foglio su cui scrivere i contadini soldati la trovavano sempre, e se non c'era o non sapevano scrivere surrogava la memoria, ben allenata nelle veglie serali sull'aia o intorno al canto del fuoco.
Come il contadino Ottavio, strappato dai dolci boschi della sua Lucolena per arrampicarsi sulle aspre montagne del Carso, che sa maneggiare bene la scuola appresa nelle veglie, e se ne serve egregiamente per il suo diario, versato in quelle terzine dantesche che dimostra saper maneggiare come la zappa e l'"ubbidiente".
Quando trova il tempo di scrivere questa sua piccola commedia? Forse nelle interminabili ore passate nella trincea, oppure nel lungo periodo della sua degenza negli ospedali? Forse quest'ultimo è lo spazio più adatto se non alla composizione, almeno alla trascrizione della sua storia di soldato, come si può dedurre dall'ordinata calligrafia del quaderno che ci è pervenuto, ma solo la poesia in rima può conservare pressoché intatti nella memoria ricordi così nitidi.
Purtroppo il quaderno originale è andato perduto nel lungo travaglio della vita vissuta ma per fortuna il paziente lavoro di una nipote è riuscito a far riemergere i fogli ingialliti delle fotocopie eseguite in gioventù che riescono ancora a documentare una storia che sarebbe stato un peccato fosse andata perduta.
Un quaderno a larghe righe di quelli che abbiamo usato anche noi, di prima o seconda elementare, forse le sole che furono frequentate dallo scolaro Ottavio Martini, e dalla calligrafia pulita e inclinata, dalla assenza di cancellature o correzioni, dalla cura nel numerare e dividere bene le terzine dantesche del suo diario di guerra possiamo dedurre che forse il testo fu ricopiato, forse dettato e trasferito da vecchi fogli.
La nipote che cura l'edizione del volume, non trovando un editore disposto a pubblicare il diario in rima, lo fa stampare a sue spese, e delle 490 terzine ne pubblica solo quattro.
Mancando i fogli originali non possiamo addentrarci in un'analisi più dettagliata, tuttavia dalla trascrizione riusciamo a cogliere l'aspetto fondamentale della scrittura di Ottavio, dall'uso generalizzato della degeminazione della doppia r, caratteristica del contado fiorentino (guera, tera, ecc.) alle rare ma ben individuabili citazioni dantesche che affiorano in qualche endecasillabo, come il "dolore che si rinnovella" ispirato dal ricordo di Francesca, o la "dura terra" che non si apre che ci rimanda al conte Ugolino, due fra le più popolari ed amate figure dantesche.
Non è su queste elucubrazioni da letterati che ci vogliamo soffermare, ma su quel lamento continuo, incessante che accompagna tutto il poemetto, dalla pietà per i compagni morti o feriti, commoventi quei versi in cui Ottavio si duole del ferito morente scaricato dalla lettiga per far posto a lui, che deve esser trasportato nell'ospedale, lacerato dalla bomba ma in grado di sopravvivere se curato; come non pensare ai versi del poeta laureato Rebora dedicati al compagno "ferito laggiù nel valloncello"? ma i feriti che lasciano il posto a lui non hanno più la forza di gridare e si rassegnano ad un'umana deposizione.
Ed è ancora il dolore ad accompagnare la rapida fine della giovane moglie, distrutta dalla spagnola che miete più vittime della guerra, un dolore immenso che riesce a coprire quello fisico provocato dall'estrazione delle numerose schegge dello schrapnell che gli ha devastato il corpo. E aggiungiamo anche la fiducia totale con cui si concede al medico chirurgo che lo deve ancora lacerare, il breve dialogo che precede l'operazione è quello fra padre e figlio, dove ambedue sanno che potrebbe essere l'ultimo.
Ci auguriamo che queste pagine di memorie possano avere una circolazione più ampia che non la breve mostra di Lucolena e le poche copie del volume di Monica, alla quale va tutta la nostra gratitudine per la passione e la tenacia con cui ha voluto restituire a noi viventi un documento che aveva rischiato di rimanere per sempre sepolto, insieme alla memoria e al ricordo del soldato Ottavio. (A.B.)
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Dino Casanovi: Sassofortino, 29/01/1920 - Ribolla 14/04/2014.
Ultimo di sei figli, trasferito al podere Selvello del Maiani nel 1927. In mezzadria, prima con il vecchio Angiolino Maiani e poi con suo figlio Mario Maiani, con il
quale la famiglia stabilì un rapporto amichevole e di reciproca fiducia. Di affetto, soprattutto. Un rapporto concluso nel 1983 con la fine della mezzadria e gli accordi di successione nel podere, rimasto alla famiglia Casanovi, insieme a 11 dei 70
ettari di terreno.
Sposato nel 1948 con Leopoldina Frati, nati tre figli (Luana, Maria Grazia e Maurizio), il lavoro nel podere continuò fino al 1991, con la gestione congiunta di Dino, il fratello Gino e le relative famiglie conviventi e organizzate
in una gerarchia tipicamente matriarcale.
Dopo qualche tentativo infruttuoso, Dino accettò di raccontarmi la sua storia di prigioniero di guerra. Il primo incontro fu imbarazzante per entrambi: io non sapevo dove sarebbe andato a parare e lui
era evidentemente disturbato da determinati ricordi. Avrebbe voluto parlare dell'Inghilterra, degli affetti lì trovati, della libertà riconquistata e invece io tendevo a riportarlo indietro, all'inizio della storia. Ma non sempre era disposto
a scendere in quei ricordi, c'era un rito di preparazione che contemplava una camomilla pomeridiana, prima del nostro incontro, e una successiva notte in bianco a ripensare ai particolari, a ricercare episodi e fatti accaduti. Non ho mai registrato le sue
parole per non creare imbarazzo, ho preso una decina di pagine di appunti e poi ho ricostruito gli episodi facendo agire i personaggi (alcuni reali, alcuni inventati per dare continuità alla storia). Lui leggeva un capitolo per volta e, se necessario,
facevamo correzioni e modifiche.(Laura Maggi)
Come rileva Giancarlo Innocenti nella sua prefazione "Lo scenario della 2^ Guerra Mondiale ha offerto e continuerà ad offrire notevoli spunti di studio, di ricerca e di approfondimento... per questioni esistenziali siamo ormai alla soglia oltre la quale sarà impossibile raccogliere testimonianze dirette...".
Così anche la storia raccolta amabilmente da Laura Maggi è stata appena intravista dal protagonista scomparso quando ancora il volume era in tipografia; sempre più rare diventano queste testimonianze che possono portare ad accrescere un tassello nella copiosa produzione documentaria dei protagonisti di questa sanguinosa guerra, dei quali la nostra rivista ha spesso parlato ed anche in questo numero porta all'attenzione dei lettori una testimonianza in terza rima di un diario recuperato addirittura risalente alla Prima Guerra Mondiale, giusto un secolo fa.
La storia di Dino, classe 1920, inizia alla fine di gennaio, quando riceve la cartolina che lo chiamava al distretto militare per l'arruolamento; aveva appena compiuto i venti anni e già si preannunciavano i venti di quella guerra che il duce aveva fretta di dichiarare per poi partecipare al spartizione del bottino che il furher prometteva con le sue iniziali e folgoranti vittorie. Abbiamo ricordato nel numero precedente (TOSCANA FOLK n. 21 pag. 70) quali sarebbero state le portate del "succulento banchetto" che ne sarebbe seguito: la Tunisia, la Corsica, Nizza e Gibuti ... e c'era che ci credeva davvero, altro che la povera lignite di Ribolla!
Pochi giorni dopo la partenza per Libia, dove il 10 giugno arrivò l'annuncio che era finalmente stata dichiarata un'altra guerra, "paurosa e fascinatrice" come quella che un quarto di secolo prima Mussolini, non ancora "duce", propagandava dalle colonne del suo nuovo giornale, Il Popolo d'Italia.
Dino non ebbe molto tempo per imparare l'arte della guerra in quello scorcio di fine giugno in cui la sgangherata contraerea della nostra artiglieria, inefficace contro i bombardieri inglesi che sganciavano il loro carico di bombe; l'unica vera azione che seppe fare fu l'abbattimento di un aereo che volava a bassa quota che fece esultare i soldati, purtroppo l'aereo era italiano e in quella prima azione di guerra illustre vittima fu il Maresciallo dell'Aria e Governatore della Libia Italo Balbo. [Enrico Redi classe 1920 da Monte San Savino (Ar). A Tobruk raccontava a Corrado che vide abbattere il Caproni di Italo Balbo, "...lo chiapparono proprio in pieno..."]
La guerra di Dino finì pochi mesi dopo, con lo spostamento del suo reparto sul confine egiziano, a Tobruk, dove invece che la festa della vittoria arrivarono i potenti carri armati inglesi che circondarono le truppe italiane, ed erano così numerosi che presto gli ufficiali si resero conto che l'unica azione possibile era la resa.
Al sesto capitolo dei ventidue complessivi, inizia quella prigionia che dà il titolo al libro, divisa in due parti, la prima in India non diversa da tutte quelle capitate al nostro esercito completamente sbaragliato, la seconda in Inghilterra, più umana,"altra", che riservò al nostro soldato un lungo periodo di serenità in un ambiente quasi familiare, nonostante il duro lavoro in una fattoria e la lontananza dalla sua Maremma.
Vogliamo evidenziare solo un aspetto del ritorno in patria dopo sei anni, e si coglie nel penultimo dei capitoli: l'arrivo a Roma, quando i reduci salgono sull'autobus che doveva condurli al centro di raccolta del Celio e vengono apostrofati dai passeggeri borghesi come dei vigliacchi e traditori:
"... Tornate da dove siete venuti, avete fatto la bella vita, mentre qui si moriva sotto le bombe". ... non fu detto che l'Italia aveva perso la guerra per colpa loro, ma ci mancò davvero poco. Dino rimase impietrito: quelle parole, gridate con tanto disprezzo negli occhi e nella voce lo avevano ferito come coltellate, mai e poi mai si sarebbe aspettato un'accoglienza del genere... Forse se si fosse fatto ammazzare, sarebbe stato più utile a quei poveri esaltati sull'autobus."
Il fascismo non era scomparso con la fine della guerra. (A.B.)
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Questo libro ci è arrivato insieme ad una cortese lettera in cui l’autore si presenta “…né uno studioso, né uno scrittore, ma semplicemente un appassionato difensore della cultura e delle tradizioni della nostra valle”. Il suo è il terzo libro che esce sulle tradizioni della valle del Brandeglio; la ricerca sullo “storiaio” di Cucciano vale da sola a qualificare Dorando come studioso: una lunga e paziente ricerca d’archivio (che a causa delle difficoltà oggettive ci aveva bloccato quasi per venti anni) è stata pazientemente portata avanti a Firenze (Archivio di Stato) e a Pistoia (Archivio Diocesano e Archivio Vescovile); un lavoro lungo e certosino solo per raccogliere le necessarie e documentate notizie sulla vita del cantastorie pistoiese, che finalmente ci porta all’ esaustiva data della sua scomparsa a Firenze, scomparsa che gli studiosi (tutti riportati nella ricca bibliografia) che ci avevano preceduto ponevano all’incirca intorno agli anni Venti del XIX secolo.
Ma la ricostruzione della vita e dell’attività del Menchi va ancora oltre: c’è una bella scheda sulla valle del Cireglio con la descrizione dei luoghi frequentati dal Menchi e dell’ attività dei suoi abitanti, vengono recuperate le notizie sulle famiglie di provenienza, sua e della moglie Umiltà con la quale visse a Cucciano fin verso i trenta anni, prima di stabilirsi a Firenze ad esercitare la sua attività di cantastorie abitando con la moglie nella “Piazza della Rena” [oggi via de’Renai], nel povero quartiere di San Niccolò; le suppliche con cui si rivolgeva agli Ispettori della Polizia granducale per esercitare l’attività di Cantastorie; la riproduzione integrale de L’ultimo dei Giullari, il citatissimo articolo dell’Arcangeli apparso nel febbraio del 1847 su La rivista di Firenze, che riporta la più ampia scheda sul Menchi conosciuta finora.
Segue la parte più importante, tutte le sue composizioni stampate, fra cui segnaliamo ben sette versioni della sua più celebre canzone che è il Canto del Coscritto.
Aggiungiamo infine che il volume fa parte di una serie di pubblicazioni edite e curate, senza contributi né pubblici né privati, dalla piccola Associazione Amici di Pupigliana e della Valle del Brandeglio, come ci spiega nella presentazione il Presidente Calogero Armato; la prefazione è del curatore della collana Andrea Ottanelli.
Vogliamo indicare anche un difetto? Certamente, il volume è stato edito in sole 150 copie e non è in vendita nelle librerie, si può richiedere fino ad esaurimento delle copie all’Associazione. (A.B.).
L'autore del libro è Franco Fantechi, un artigliere che esce con un corposo studio sull'episodio, il naufragio appunto della motonave. Daniele Finzi, qualche anno prima aveva usato il termine affondamento, che anche a noi sembra più indicato. Questo non sminuisce minimamente il valore della storia, ben documentata del suo lavoro; ne viene fuori un volume di ben 623 pagine dove Fantechi ha raccolto la più ampia sequenza di testimonianze pubblicate su quel quasi sconosciuto episodio di guerra: 80 storie raccontate e documentate dalla memoria e dalle carte, come recita il sottotitolo; ricordi preziosi dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime; questi racconti sono integrati da 25 schede che allargano la vicenda alla guerra condotta in Albania e in Grecia. Dal libro emerge così un quadro quasi esaustivo sul quel primo tragico inizio di guerra in cui persero la vita oltre 220 uomini, quasi tutti toscani.
Fra queste ottanta testimonianze, alcune sono purtroppo lacunose a causa della scomparsa dei protagonisti, spesso reticenti a raccontare sia pure in famiglia i particolari raccapriccianti di quella improvvisa esplosione che fece affondare la motonave. Emergono tuttavia delle delucidazioni che portano un po' più di luce sulle cause dell'affondamento, che la stampa dell'epoca cerca di nascondere o sviare: siluro inglese? incidente? sabotaggio? Queste le ipotesi che vengono fatte dai superstiti; la verità si può solo intuire o leggere fra le righe e sta allo storico intervenire e ricercare una versione il più vicina possibile alla verità.
Alcuni ricordi dei superstiti sono preziosi, anche se difformi; chi parla di un sabotaggio, chi di uno scoppio casuale, chi di un siluro. Su questa ultima causa c'è una testimonianza precisa, anche se indiretta, di un sopravvissuto, il quale racconta al suo ritorno che, essendo salito sul ponte della nave, vide arrivare la traccia del siluro che fece esplodere e affondare la nave. Si tratta dell'artigliere
Abboni Bruno la cui storia rivive nel racconto della nipote a cui il nonno aveva raccontato di un suo incontro con un altro sopravvissuto, in quella notte che non poteva dormire e come altri commilitoni era salito in coperta da dove vide "arrivare il siluro", ed essendo un buon nuotatore si gettò subito in mare; della stessa opinione è Giampaolo Bonechi, il figlio di un altro artigliere che scampò all'affondamento della Paganini.
Possiamo accludere alcune nostre considerazioni; il tratto di mare in quel periodo (diciotto giorni dopo l'inizio della guerra) era ben sorvegliato dalla marina inglese e numerose navi da guerra e sommergibili pattugliavano il canale di Otranto e le coste della Grecia e dell' Albania; sottolinea questo dettaglio anche Bandini Amos (pag. 83) aggiungendo che la partenza della Paganini da Bari fosse stata ritardata di un giorno a causa degli attacchi dei sottomarini inglesi.
Inoltre Fantechi, nelle carte documentarie allegate alle storie, pubblica lo Stato di Servizio di un altro naufrago, il tenente Betti Carlo, e in fondo a quel documento ufficiale (pag. 101) è riportata fra parentesi anche la causa dell'affondamento del piroscafo: "(silurato)" e ci sembra poco credibile che il risultato dell'inchiesta del Tribunale di Tirana avesse poi concluso che si era trattato di un attentato.
Un'ulteriore testimonianza risulta anche da uno dei diari di guerra che continuano ad essere pubblicati fino ai giorni nostri, ce la riferisce il soldato Basilio Pompei di Pontassieve che, poche settimane dopo la dichiarazione di guerra, è richiamato alle armi e viene spedito a Barletta con le truppe pronte a salpare alla volta dell'Albania occupata; questa la sua testimonianza: "Rientro il 22 luglio [1940] al deposito misto in Barletta truppe per l'Egeo, le partenze sono sospese per i sommergibili nemici che girano nel Mediterraneo".
Aggiungiamo infine che nel Diario di Galeazzo Ciano, all'epoca Ministro degli Esteri del Regno d'Italia e genero del Duce, sono numerosi gli appunti sull'affondamento di navi italiane che portavano rifornimenti e carburante alle nostre truppe, e risulta che almeno una nave su due viene silurata e affondata dagli inglesi.
Alla data del 28 giugno 1940 Ciano non è ancora informato sull'episodio della Paganini ed anche successivamente non ne parla; il 27 giugno è a Livorno per commemorare la "morte di Papà", ma il 28 scrive che "Bisogna ad ogni costo evitare un conflitto nei Balcani" e aggiunge un particolare rilevante: "i nostri sottomarini perduti ammontano a otto"; sono molti per non far pensare ad una forte presenza di navi e sottomarini inglesi in quel tratto del Mediterraneo a guerra appena incominciata.
Soltanto un appunto vogliamo fare a questo che consideriamo uno dei libri di storia più interessanti che abbiamo letto negli ultimi anni; la grande stampa lo ha ignorato, solo perché abbonati abbiamo letto una recensione sul periodico mensile Storia & Storie di Toscana; e non è stato facile venirne in possesso, solo dopo diversi tentativi un'impiegata ci ha cortesemente fornito l'ultimo volume disponibile in Regione; dopo la presentazione e la distribuzione gratuita una parte della tiratura poteva esser messa in vendita a un prezzo accessibile... (A.B.).
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Si tratta di una nuova edizione del volume uscito nel 1982 con note critiche di Pietro Clemente e Mario Isnenghi e oggi esaurito. Il diario del contadino Giuseppe Capacci è composto da sette (uno è andato perduto) quaderni di 241 pagine complessive e riporta i fatti avvenuti fra il gennaio del 1915, quando ancora l’Italia non era entrata in guerra, e il novembre del 1916.
“Scorrendo le pagine, scrive Dante Priore, del suo Diario, non si può non rimanere affascinati dalla sua straordinaria capacità di descrivere fatti, personaggi, stati d’animo; dal suo non comune spirito di osservazione delle improvvise e frequenti illuminazioni di poesia che rappresentano una costante di tutta l’opera”.Già durante il servizio militare a Milano, prima ancora dell’intervento dell’Italia in guerra, il Capacci non perde l’occasione di denunciare la sua condanna per l’imminente partecipazione al conflitto urlata nelle piazze dagli studenti: “studiarono di fare la guerra”, sottolinea con malcelato sarcasmo, e di fronte alle loro grida e al tentativo di creare disordini aggiunge: “ma dovete passare di qui, vigliacchi; - si diceva noi soldati, - vi si fa subito provare la guerra!”. Ma più di tutti lo impressiona “un vecchio garibaldino, con la sua camicia rossa, con diverse medaglie sul petto” che insieme agli studenti avanzava gridando “Vogliamo la guerra! Viva Salandra, morte a Giolitti”. Cose orrende che mi urtarono i nervi a descriverle”.
La sua approvazione del non intervento giolittiano che avrebbe potuto evitare tanto spargimento di sangue, a guerra non ancora incominciata, si accompagna alla condanna degli scalmanati interventisti, che bolla ancora con forza: “volsero la guerra credendosi diventare padroni del mondo, di vivere senza lavoro; i suoi entusiasmi erano sì tanto grandi, ma stando però dentro Milano, passeggiando nei centri più illustri, sotto alle gallerie, a ristoranti e a caffè!”; saranno gli stessi che diventeranno imboscati o se ne staranno a dormire lontani dal fronte “con le mogli sui letti di lana”, come recita un noto canto.
E in prima linea ci venivano mandati i soldati più poveri a farsi ammazzare dalla mitraglia del nemico; i generali se ne stavano al sicuro nelle retrovie, se ne accorgono tutti, e lo scrivono a casa o nel diario, da Gadda: “…a Brescia dormiranno e chiaveranno puttane” (5 ottobre 1915), a Nello contadino del Valdarno: “sollo i poveri si trova i brima linia” (10 giugno 1916).
Così si moriva sull’altipiano del Carso, osserva Capacci dopo essere scampato ad un “combattimento furibondo” dove non si accorge della morte del compagno barbiere se non quando, vistolo accucciato, ricorda: “lo toccai sulla spalla dicendoli: “Andiamo, che ora si passa!”: il soldato che l’aveva spoggiato mi grida” “Non vedi che l’è morto?”. Io rimasi e non parlai, lo guardai come stupito. Non fece una parola né un gesto: rimase secco: la morte fu bella, senza dolore”. Una sincera espressione di umana pietà che rimanda al trecentesco Anonimo romano sulla fine di Cola di Rienzo. Mentre le nuove armi di distruzione lasciavano a terra i poveri soldati, tramortiti dai “gassi” e finiti a colpi di mazza ferrata (il verbo ammazzare deriva proprio da questo gesto), per il mezzadro Beppe la pietà ancora non era morta. (A.B.)
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